Confessioni di un papaboy

di Arnaldo Casali

Per quelli della mia generazione Giovanni Paolo II non è un papa, ma il papa.

Sono nato sotto Paolo VI, ma avevo appena tre anni quando Karol Wojtyla si affacciò per la prima volta da piazza San Pietro. Il mio primo ricordo di lui riguarda la sua visita a Terni: avevo sei anni e mio padre riuscì a farmi credere che lo conosceva personalmente perché passandoci davanti ci aveva salutato.

E’ vero, lui salutava tutti, ma quando te lo trovavi di fronte avevi sempre l’impressione che guardasse proprio te. D’altra parte, tutti quelli he lo hanno incontrato dicono che anche se non ti conosceva riusciva a farti sentire speciale, unico al mondo. E’ così guardando la persona, che è riuscito a entrare nei cuori della gente, ad essere il papa di tutti: profondamente polacco, profondamente internazionale, profondamente romano.

Per quelli della mia generazione, per noi che abbiamo imparato a conoscerlo sin da bambini e che poi lo abbiamo seguito agli straordinari raduni delle Giornate Mondiali della Gioventù, per noi che lo abbiamo amato come un nonno, per noi Giovanni Paolo II resterà ancora per molto tempo il Papa.

E non solo per noi, perché la sua opera più grande è stata proprio quella di riuscire ad identificare il papato stesso con la sua figura, e a riversare così sulla Chiesa la stima e l’affetto guadagnate con la sua simpatia, la sua santità, il suo carisma eccezione di mistico, attore, poeta, atleta, uomo.

Ma forse è stato questo il problema: lasciandoci identificare il suo pontificato con la Chiesa ci ha fatto credere che la sua fosse la migliore – se non l’unica – Chiesa possibile. E così ha annullato il dibattito, il desiderio di crescita che da sempre aveva animato la Chiesa e che sotto il suo pontificato è sembrato scomparire.

Il Papa papà, il Superpontefice, il Santo Subito da una parte ci ha riscaldato il cuore, dall’altra ci ha addormentato lo spirito critico. Il suo pontificato non ha lasciato nei miei coetanei fermento, ansia di rinnovamento, voglia di cambiare il mondo. A criticare la Chiesa sembrava quasi di fare peccato, come se volerla migliorare significasse disprezzarla. Quelle che negli anni settanta erano tematiche su cui dibattevano vescovi e cardinali (a cominciare dagli anticoncezionali o il sacerdozio femminile) negli anni ’90 sono diventate quasi eresie. Si ha come l’impressione che la Chiesa sia sempre stata così e che mai potrà essere diversa, che la Chiesa è perfetta così com’è e non può e non deve essere cambiata.

Il dibattito è relegato in qualche corridoio di Curia, in qualche parrocchia e sui fogli dei sempre più sparuti gruppi di dissidenti.

Così ci siamo ritrovati con una Chiesa piena di devoti e con molti buoni samaritani, ma con pochi profeti. Una Chiesa in cui è facile pregare ma difficile dialogare, in cui il volontariato è forte ma è quasi impossibile far crescere delle idee. A fare presa sui giovani sono soprattutto i movimenti, ognuno con grandi meriti, a tutti accomunati da una mancanza di dibattito interno, allineati sulla figura carismatica di un fondatore che detta la linea a cui conformarsi.

Ma quel che è peggio, è che la gran parte dei miei coetanei sono del tutto inconsapevoli di questa situazione. Mi capita spesso di confrontarmi su queste tematiche con amici assolutamente convinti che Giovanni Paolo II sia stato un papa progressista. In parte è vero: la sua grande contraddizione è stata quella di essere stato al tempo stesso progressista e conservatore, tanto da aver fatto – paradossalmente – avvicinare i lontani e allontanare i vicini: ha aperto al Chiesa la dialogo con le altre religioni ma ha fatto passi indietro nell’Ecumenismo. Si è conquistato la stima e il rispetto dei laici con la sua autorevolezza morale, ma ha lasciato che continuasse l’emorragia dei cattolici, il crollo delle vocazioni, la fuga degli adolescenti dalle parrocchie dopo la cresima; lo ha permesso con una rigida chiusura in materia dottrinale, con una morale impostata più sulla sessuofobia che sulla purezza, con un certo lassismo nel governo della Chiesa, ma soprattutto non fornendo ai giovani buone ragioni – oltre al suo personale carisma – per continuare ad essere cattolici.

Di fatto durante il pontificato di Wojtyla è cresciuto a dismisura il divario tra i cattolici praticanti e i cattolici simpatizzanti.

Si è detto che Giovanni Paolo II ha svuotato le chiese e riempito le piazze, ed è vero: tutti hanno amato papa Wojtyla, ma quanti lo hanno preso sul serio? Quanti si impegnano concretamente per la costruzione della Chiesa e di un mondo diverso? E quanti lo fanno perché innamorati del Vangelo, e non di don Giussani, di padre Pio, della Madonna? Quando il dito indica la Luna, lo stolto guarda il dito, dicono i cinesi.

D’altra parte dobbiamo riconoscere anche, senza ipocrisie, che papa Wojtyla si è volutamente fatto guardare.

Consapevole del fatto che è più facile innamorarsi di una persona che di un’idea, ha incentivato il culto della personalità: della sua e non solo; e così ecco la venerazione della Vergine, la moltiplicazione dei santi (ne ha fatto più lui che tutti i suoi predecessori messi insieme), l’esaltazione della grandi figure carismatiche. Ed ecco il silenzio lasciato alle associazioni laicali, l’indifferenza nei confronti di una federazione democratica di realtà in gran parte cattoliche come la Rete Lilliput.

Insomma la Chiesa uscita dal pontificato di Wojtyla è una Chiesa grande, potente, stimata, amata e venerata, ma sostanzialmente vuota, deresponsabilizzata e piena di contraddizioni, facile preda per quella “dittatura del relativismo” contro cui si è scagliato Ratzinger il giorno prima di diventare Papa.

E non è certo un caso che sia stato lui ad essere stato eletto: dopo il giovanissimo, sconosciuto, sorprendente papa venuto la lontano, i cardinali hanno scelto il più vecchio, il più vicino, il più importante dei cardinali: l’unico che può permettersi di sottrarsi al confronto con il predecessore. E di guidare una Chiesa che punta più alla sostanza che alla popolarità. Ma anche per quello che Ratzinger è: intransigente, conservatore, severo, per nulla mediatico, per nulla carismatico, per nulla simpatico, anzi arcigno, sarcastico, distaccato, persino impacciato nei panni del pastore, Joseph Ratzinger non rischia di confondere le idee con la sua bonarietà, on rischia il culto della personalità, non rischia il consenso unanime, anzi forse con posizioni più radicali, con meno gesti eclatanti e più fermezza nelle posizioni, riuscirà a risvegliare il mondo cattolico dal torpore in cui è caduto sotto il paterno, straordinario, unico, grande Karol.

(da Adesso n. 35 – primavera 2005)