Dannata Confidenza

di Arnaldo Casali

Devo farvi una confidenza: anche se cerco di darmi un tono da intellettuale, io al cinema ci vado soprattutto per divertirmi. Dal grande schermo voglio spettacolo, magia, incanto e – soprattutto – voglio ridere.

Non sopporto l’idea, tanto in voga, secondo cui l’arte debba “disturbare”. Ma soprattutto, io non sopporto i pipponi.
Non sopporto nemmeno quelli sentimentali dei nuovi Ghostbusters, men che meno quelli francesi da cinema borghese chiuso in camera, peggio che mai quelli italiani, che il cinema borghese – a differenza dei francesi – nemmeno lo sanno fare, e i pipponi retorici te li mettono anche in commedie tipo I peggiori giorni di Bruno & Leo.

Questo per dire che Confidenza, il nuovo film di Daniele Luchetti tratto dal romanzo di Domenico Starnone, sulla carta non era proprio il mio film ideale.
Melodramma su una storia d’amore molto banale tra persone estremamente banali (per intenderci la tresca amorosa tra un professore e una sua studentessa, cui segue matrimonio tra colleghi con marito di successo e moglie frustrata), senza una risata che è una, accattivante solo per la firma del regista e quel minimo di mistero promesso dalla trama.

Invece.

Non dirò che Confidenza è un capolavoro, ma solo perché su facebook leggo gente che non ne può più di sentire questo genere di commenti. Il problema è che Confidenza un capolavoro lo è davvero, e sotto tutti i punti di vista. A cominciare dalla regia, che rappresenta a mio avviso la migliore prova in assoluto di Daniele Luchetti, che è un regista che di film non ne ha fatti pochi.

Ed è un film disturbante, ebbene sì. Il cinema può essere disturbante, deve essere disturbante. Ma non perché ti martella le palle bensì perché ti strappa il cuore, te lo porta a spasso per due ore e passa e poi ti molla in mezzo alla strada, frastornato e disorientato. Questa è arte.

Tutto è disturbante, in Confidenza. Ed è questo a renderlo un film perfetto: la musica inquietante ed ossessiva, la recitazione iper-naturale, così dannatamente normale, i dialoghi – altrettanto quotidiani – la fotografia, bellissima ma mai stucchevole, mai compiaciuta.

Questo rende così bello, così insolito – e al tempo stesso così doloroso, così ansiogeno – il film: l’essere naturale, brutalmente normale, totalmente realistico, senza un briciolo di retorica, di vezzo, di autocompiacimento.
Senza una battuta che suoni finta, scritta, forzata, senza uno sguardo che non sia penetrante, senza un dialogo che non risulti disarmante, così privo di guizzi e di cadute come è. Confidenza è vita vera sbattuta in faccia. Racconta la banalità del male e la banalità del bene, l’esistenza media, piatta, fredda, in cui l’unica vera passione è rappresentata dalla paura.

Ed è proprio perché è così realistico, che fa tanta paura. Perché non ti offre vie di fuga, non lascia alcuno spiraglio alla sospensione dell’incredulità. Ci sei dentro e non puoi scappare. E la paura non viene da fuori – da un mostro, da un killer, da una catastrofe – la paura viene da dentro, viene dall’amore, viene dalla confidenza.

Elio Germano lo sappiamo che è tra i più grandi attori italiani, in grado di trasformarsi in qualsiasi personaggio da Francesco d’Assisi a Nino Manfredi, da Giacomo Leopardi ad Antonio Ligabue, ma in questo film non si trasforma proprio in niente: è nudo e naturale nel dare volto a un uomo fastidiosamente normale.
Perché fastidiosamente, direte voi.
Perché il mondo lo racconta, invece, come una sorta di eroe. Ed è quello stesso mondo che celebra in continuazione eroi a buon mercato – vedi il caso Scurati – proprio per assolvere la mediocrità dilagante.

Pietro Vella è un insegnante (come l’autore del romanzo da cui è tratto il film e del quale è anche quasi coetaneo) che mette molto amore nel suo lavoro, e che diventa conosciuto per il suo metodo – “La didattica dell’affetto” – grazie al quale scrive libri, tiene conferenze, riceve premi.

A dispetto della fama da nuovo eroe della scuola italiana – quasi un Rodari, un Milani, una Montessori – Pietro è un uomo fondamentalmente mediocre. D’altra parte il suo celebre libro glielo confeziona la casa editrice su incarico del Ministero.
Sì, perché Pietro è anche un raccomandato. Di fatto è un prodotto del primo governo Prodi e – per la precisione – del ministero di Waler Veltroni. Non si fanno nomi, ma basta fare due conti: siamo nel 1997 quando il sottosegretario gli commissiona il libro che – anni dopo – gli varrà anche un premio in Quirinale consegnato dal Presidente della Repubblica (anche in questo caso, su raccomandazione della figlia che fa la giornalista parlamentare).

La mediocrità di Pietro lo porta a stare sempre un passo indietro da gesti eclatanti. La sua vita sembra sospesa tra un vorrei ma non posso, un potrei ma non voglio, o forse non ho coraggio, o semplicemente non ne vale la pena. Si incammina ma non arriva mai in fondo, probabilmente perché è un uomo che ha piena consapevolezza di sé ma non vuole assumersi la responsabilità di scelte radicali.

Pietro Vella ha un segreto, ed è proprio questo segreto a muovere la trama. Un terribile segreto: almeno è quello che vuole farci credere.
Ma non è il rimorso, a tormentare il protagonista per l’intero film – una cavalcata che inizia alla fine degli anni ’80 per arrivare ai giorni nostri. Non è il senso di colpa, e forse non perché l’uomo sia un cinico. Più semplicemente, perché è troppo mediocre per essersi macchiato di gravi delitti. Vella è un peccatore, sì; ma con moderazione. E’ fondamentalmente un brav’uomo: la perfetta incarnazione del perbenismo di una certa sinistra moderata. Lontano tanto dall’impegno quanto dalla trasgressione.

No, non è il rimoso a tormentare il protagonista, ma la paura. Il terrore che il suo segreto venga rivelato da Teresa.

Teresa, per l’appunto. Che è la vera chiave di questo scrigno di cinema e mistero.

Ex alunna, che lui ha aiutato a laurearsi (Pigmalione sospeso tra altruismo e manipolazione), ed ex fidanzata, a lei Pietro ha rivelato un segreto che “potrebbe rovinargli la carriera” a detta della ragazza, che l’ha poi lasciato di lì a poco senza spiegazioni. Forse perché disgustata dalla rivelazione. O forse perché aveva ormai ottenuto quello che voleva.

E’ proprio l’interprete di Teresa il principale punto di forza del film: Federica Rosellini, un nome quasi sconosciuto al cinema italiano, è una presenza magnetica e inquietante. Molto più importante di quella di Germano. Perché il ruolo di Pietro avrebbe potuto interpretarlo qualsiasi grande attore italiano, ma trovare un volto come quello di Rosellini, no, non deve essere stato facile.

Teresa ha una bellezza fatale, il suo sguardo ricorda l’Anticristo di Signorelli: gli occhi da serpente seducono e inducono orrore.
E’ lei la vera sorgente del terrore di Pietro, non il segreto in sé. Anche se il protagonista cerca di farci credere in ogni modo che sia un peccato indicibile molto probabilmente si tratta di una sciocchezza. Anche perché, se così non fosse, non l’avrebbe confidata con tanta leggerezza.

Dunque è proprio Teresa a trasformare quel piccolo segreto in un incubo che insegue il protagonista per trentacinque anni, senza mai dargli tregua, senza offrirgli alcun riparo o via di fuga.
Vella, da uomo medio quale è, cerca in ogni modo di essere rassicurato. Ma Teresa non può rassicurarlo, perché è essa stessa l’incarnazione del male e della paura.

In molti, commentando questo film, hanno chiamato in causa Pirandello. Io ci vedo piuttosto il Dottor Faust.
La storia d’amore con la ragazzina che fa cameriera e si trasforma poi in una scienziata di fama internazionale, può essere vista proprio come una rilettura del famigerato patto col diavolo.

Vella, insegnante qualsiasi, uomo medio e mediocre, stringe questo sodalizio col demonio che – in cambio della sua anima – gli darà fama, una famiglia, una meravigliosa figlia e anche una bella dose di fascino. Prima o poi, però, verrà a reclamare quanto pattuito.

Quella confidenza che noi vediamo ma non possiamo sentire, è dunque una firma col sangue: non a caso il rapporto tra Teresa e Pietro non è solo carnale: la ragazza vuole l’anima del suo amante, e lo ribadisce in continuazione.

Come Mefistofele è una presenza incombente nella vita del protagonista, sempre pronta a ricordargli che la sua anima le appartiene e che un giorno verrà a reclamarla.

Se però Faust viene salvato in extremis dalla grazia di Dio, Pietro è destinato alla dannazione, perché in lui – al contrario di Faust – non c’è alcuna aspirazione all’infinito, ma – al contrario – una terribile mediocrità che lo porta a guardare sempre in basso.

Insomma, Confidenza è un film che non dà risposte, ma pone domande. Ti regala arte, ma allo stesso tempo di costringe a riflettere, a mettere in discussione te stesso, quello che vedi, e quello in cui credi. In una parola, ad esercitare un pensiero critico. Che è quello di cui tutti abbiamo disperatamente bisogno in questa epoca.

Ad arricchire il cast anche Vittoria Puccini, Isabella Ferrari, Pilar Fogliati finalmente in un film degno del suo talento e – nel ruolo dell’enigmatica Giovanna – Elena Bouryka, che si è occupata anche del casting, e che ha vinto l’Angelo per la miglior regia al Terni Film Festival nel 2019 con il corto Walter Treppiedi.