Il vincitore del Terni Film Festival diventa il “Tuttofare” di Castellitto
di Arnaldo Casali
Il tuttofare di Valerio Attanasio è un film fresco. Fresco, prima di tutto. Perché non ha niente a che fare né con l’aria stantia di certe opere d’autore, né con la ripetizione all’infinito di gag, situazioni, atmosfere e cast della maggior parte dei film comici italiani.
Il tuttofare è qualcosa antico e al tempo stesso di completamente nuovo. E la sua forza sta nel richiamarsi a storie, dinamiche, battute che appartengono al patrimonio culturale della commedia italiana – da Il sorpasso di Dino Risi a Fantozzi di Paolo Villaggio fino a Troppo forte di Carlo Verdone – riuscendo a rendere tutto nuovo, e anche più credibile.
Perché – dall’Odissea alle barzellette – tutto sta a saperla raccontare, la storia. E Attanasio è un formidabile narratore, capace di dosare sapientemente farsa e commedia, denuncia sociale e sketch da cartone animato, senza mai esagerare, riuscendo sempre a calibrare alla perfezione ogni battuta, ogni inseguimento, ogni gag.
L’esordio alla regia dello sceneggiatore quarantenne (autore, tra l’altro di Smetto quando voglio) è una macchina da guerra, costruita in modo che nulla sembri prevedibile, stupido o già visto, nemmeno quando propone situazioni e dialoghi che lo sarebbero pure: cosa c’è, per dire, di più vecchio del tormentone di quello che sbaglia sempre nome?
La storia, d’altra parte, pur muovendosi su un terreno talmente esplorato dal mondo del cinema da essere diventato in America addirittura un genere cinematografico (i “trial film”) e con il quale la commedia italiana si era già cimentata (Un giorno in pretura e Mi faccia causa, entrambi di Steno) lo fa con un’ottica completamente nuova, che affronta il tema del precariato e della meritocrazia: il protagonista è infatti un giovane praticante nello studio di un principe del foro.
Come dice il titolo, il giovane laureato, per diventare il braccio destro del grande avvocato, è costretto a fargli non solo da assistente ma da cuoco, da autista e da complice.
Insieme alla sceneggiatura, l’altro grande punto di forza del film sono senza dubbio gli attori; che, innanzitutto, non sono i soliti noti. Perché – diciamocelo sinceramente – per quanto siano bravi, Battiston, Giallini, Gassman e Leo, ultimamente sono un tantino inflazionati. Qui, invece, oltre a volti poco noti ma che funzionano perfettamente (l’argentina Clara Alonso e Tonino Tagliuti), due graditissimi ritorni dal leggendario Boris (Roberta Fiorentini e Alberto Di Stasio in comparsate irresistibili) abbiamo un’immensa Elena Sofia Ricci e, soprattutto, una coppia affiatata come non se ne vedeva da decenni sul grande schermo: Sergio Castellitto e Guglielmo Poggi.
Il barone e l’apprendista, il mostro sacro e il talento emergente, il venerato maestro e la giovane promessa, Poggi e Castellitto interpretano nel film ciò che sono anche nella realtà, e questo rende tutto ancora più vero.
Sergio Castellitto è, semplicemente, il più grande attore italiano. E lo è almeno da un quarto di secolo, ormai. Tra i pochissimi artisti italiani in grado di interpretare qualsiasi ruolo (il cinema tricolore è pieno di istrioni e scarso di camaleonti, con fin troppi Sordi e pochi Volonté) ha regalato il suo volto a personaggi che spaziano da Walter Tobagi a Gioachino Rossini, da padre Pio a Enzo Ferrari, passando per Fausto Coppi, don Lorenzo Milani, Rocco Chinnici e Aldo Moro e ha dimostrato di essere anche un grande regista con capolavori come Non ti muovere e Venuto al mondo.
Negli ultimi anni, in realtà, la sua carriera di attore si è un po’ appannata, forse a causa di ruoli poco stimolanti: nel Tuttofare Castellitto torna invece in piena forma, anche grazie a un personaggio che gli permette di tirare fuori tutto il suo istrionismo e una vena comica troppo sacrificata fino a oggi. Un personaggio, peraltro, che pur essendo cinico e comico, non è affatto bidimensionale, ma ha molte sfaccettature: il suo rapporto con il giovane praticante non è di mero sfruttamento: traspare un certo affetto paterno che rende l’Avvocato un personaggio a tutto tondo, e non una macchietta. Come in poche altre occasioni, l’attore romano ha quindi la possibilità trasformarsi in un autentico mattatore in grado di trascinare il pubblico dal primo all’ultimo fotogramma.
Guglielmo Poggi, spalla della sua spalla (ognuno è in realtà spalla dell’altro e questo è un altro elemento che rende il film particolarmente originale) con la sua prima prova da protagonista assoluto si afferma come il più importante nuovo talento della scena cinematografica italiana.
Romano come Castellitto, Guglielmo è figlio di due attori (Pierfrancesco Poggi e Paola Rinaldi), ha appena compiuto 27 anni e ha già alle spalle partecipazioni a film importanti come lo stesso Smetto quando voglio di Sydney Sabila e L’estate addosso di Gabriele Muccino, e solo nell’ultimo anno lo abbiamo visto in ben tre film: il terzo capitolo di Smetto quando voglio, Beata ignoranza di Massimiliano Bruno (dove è un liceale che dà lezioni di social al professore) e The StartUp di Alessandro D’Alatri (è il rivale raccomandato di Matteo Achilli, il fondatore di Egomnia).
Mentre si fa largo sul grande schermo, però, Guglielmo è anche molto attivo nel cinema indipendente: è infatti protagonista di Il nostro ultimo di Ludovico De Martino, film autoprodotto presentato da Nanni Moretti al Nuovo Sacher e che ha vinto premi in tutto il mondo, tra cui la menzione speciale per la produzione alla dodicesima edizione del Terni Film Festival.
Come Castellitto, anche Poggi affianca all’attività dell’attore quella di regista, tenendole però ben separate: ha già girato quattro cortometraggi e vinto – con Siamo la fine del mondo – il Terni Film Festival nel 2017. Il film, ispirato a un fatto di cronaca, ha ottenuto all’ultima edizione di Popoli e Religioni ben due Angeli: quello per il miglior cortometraggio e quello per la migliore regia.
Infine, ultima chicca che ci rimanda anch’essa ad un linguaggio classico della comicità (e – recentemente – a Maccio Capatonda) è quella dei nomi parlanti: trovata quasi infantile per una “commedia seria” e che pure viene utilizzata con una sapienza tale da non risultare stucchevole: il protagonista, giovane ingenuo ed idealista, si chiama “Bonocore”, l’avvocato divo “Bellastella”, mentre il luminare della chirurgia nientemeno che “Cervelloni”.