Filosofia in casa – Chiara Pasquini
di Chiara Pasquini
Sono seduta davanti allo schermo bianco del portatile che mi guarda tranquillo e indifferente mentre sto cercando di richiamare alla mente il torrente di sensazioni, emozioni e pensieri di questi giorni di pandemia.
Un tema sulla pandemia. La prima impressione è quella del frastuono di concitati e allarmanti bollettini medici e precetti sanitari alternati alle aride quanto tragiche statistiche di morte.
Penso subito alla segregazione (fortunatamente) impostaci per difenderci dal virus, una difesa passiva alla cui utilità molti non credevano, pensando forse a tutte le muraglie della storia che non hanno fermato né invasori né migranti, una difesa che invece si è dimostrata l’unica linea possibile.
Le pandemie della storia sembrano colpire l’umanità all’improvviso, senza segni premonitori, perché hanno la pretesa di presentarsi sempre nuove anche quando sono le stesse in momenti diversi. Un po’ come Mefistofele che si ripresenta a Faust vestito da elegante cavaliere. Solo che Faust lo riconosce subito, mentre noi non abbiamo ancora imparato a riconoscere gli effetti di quello che facciamo in questo mondo da quando abbiamo acquistato la consapevolezza di abitarci.
Ma una pandemia non è la fine del mondo, non è un terremoto o uno tsunami o una esplosione nucleare, la semplice imprevedibilità cui possiamo addossare la colpa. È una disgrazia che colpisce solo noi umani e ci costringe a fare i conti con noi stessi. Se guardiamo fuori della finestra, ci capita spesso di scoprirci distanti dalle leggi e dai ritmi della natura ma anche da quelli della società stessa in cui viviamo. Com’è organizzata la società umana? I diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino, le carte costituzionali, le nazioni unite e la sanità mondiale, valgono sempre e dappertutto?
Il virus primordiale, che dilaga incontrollato, ci spaventa perché in un istante ci fa regredire a una condizione di impotenza e smarrimento che scatenano in noi le reazioni istintive dell’essere primitivo, l’egoismo, l’aggressività, la lotta per la sopravvivenza.
A un secolo esatto dalla pandemia della spagnola, in piena globalizzazione economico-finanziaria, ci siamo trovati di nuovo soggetti a tutta la gamma delle possibili reazioni dei nostri governanti. Prima una lunga incredulità, poi la corsa ai presidi medici e sanitari, la lotta per le mascherine e per i disinfettanti, per gli apparecchi respiratori, e poi ancora, la ridda delle accuse incrociate e, in certi paesi considerati culla di civiltà e democrazia, l’avidità e il cinismo di continuare a produrre a ogni costo per non fermarsi, per battere sul tempo chi invece era costretto a farlo, e infine i diritti dell’uomo, del lavoratore, del malato, sepolti come i cadaveri ammucchiati nelle fosse comuni.
La sofferenza ridotta a un complicato e a volte confuso e contraddittorio calcolo statistico.
Ora siamo in piena fase 2, che coincide con la primavera, e la fase precedente sembra lontana, come un cambio di guardaroba stagionale. Anzi, già si parla di fase 3, che evidentemente corrisponderà all’estate. C’è ancora chi sostiene che il virus non era poi così cattivo, o che si è già attenuato o che sarà il caldo a farlo evaporare. Chissà che si prevede per il prossimo inverno.
Che fine ha fatto tutta la claustrofobia, l’ansia e l’insonnia che tormentava tanti bravi cittadini davanti alla TV, privati della loro tranquillizzante dose di vita quotidiana, il confortevole traffico stradale, il festoso caos dei centri commerciali, l’affannoso shopping intervallato dall’affollata “apericena”, l’amichevolezza del vicinato, la cordialità dei negozianti, il piacere dell’incontro tra pendolari comodamente ammassati nei loro mezzi di trasporto?
E gli oscuri lavoratori, che notte e giorno hanno continuato imperterriti a lavorare senza protezione né assicurazione, coperti dal lasciapassare di un lavoro obbligatorio, ma anche costretti dalla necessità di provvedere alla propria sussistenza o a quella dei loro cari o minacciati di licenziamento perché senza regolare contratto di lavoro?
E gli operatori sanitari, che si sono sacrificati fino al limite della propria resistenza per assistere i malati e i moribondi, destinati a una lunga dolorosa solitaria agonia in ospedali e centri sanitari ridotti a lazzaretti?
E quei loro simili meno fortunati, svantaggiati per l’età, la comorbilità, l’immobilità e l’inabilità, vittime di un virus che, in controtendenza rispetto alla modernità, sembra preferire la compagnia di vecchi deboli e indifesi, rinchiusi negli ospizi, a quelle di giovani belli e gagliardi, prigionieri dei loro telefonini?
Tutto sparisce ingoiato dal flusso continuo dell’informazione che lascia galleggiare solo quello che possa rassicurarci di essere orientati nel verso giusto, come la limatura di ferro tra i poli di una calamita. Pensiero comune, destino comune, quando tutto è tranquillo. Ma la solidarietà non è un bene comune. Nel pericolo, ognuno pensi a sé, allora i destini si separano e a ciascuno il suo.
La pandemia di influenza spagnola provocò milioni di morti, decine di milioni, secondo alcuni, ma era alla conclusione del più spaventoso evento bellico che fino ad allora l’umanità avesse conosciuto. E dopo appena vent’anni il mondo precipitò in un conflitto ancora più grande e devastante. E da allora quante guerre, quante devastazioni, quanti rivolgimenti si sono succeduti ovunque. E dove la guerra armata sembra sopirsi, prosegue incessante la lotta di sopraffazione economica, la competizione finanziaria, il vessillo del PIL, il miraggio della crescita continua. L’avidità insaziabile non si ferma davanti a nulla e, frugando e rovistando nell’ambiente, come fosse un vecchio ripostiglio abbandonato, ogni tanto trova un vaso di Pandora sepolto da qualche parte e ci trova dentro qualcosa di diverso da quello che sperava. Stavolta è un virus venuto chissà da dove. Ce l’ha portato un pangolino, dicono, chissà forse è l’animale di compagnia di Mefistofele, travestito per l’occasione da pipistrello.
La virologa Ilaria Capua parla di intrusione umana in recondite nicchie ecologiche. Allora riceviamo quello che meritiamo, queste epidemie o pestilenze o, più in generale, queste sorprese tenute in serbo dalla Natura che ci circonda, quello che Spinoza credeva fosse tutt’uno con la Divinità, e che l’uomo moderno e postmoderno ha ridotto a sgabuzzino o discarica per gli scarti della sua incessante attività creatrice. Un uomo che sembra un bambino che gioca al Piccolo Chimico o assomiglia a Topolino Apprendista Stregone. L’epidemia poteva arrivare o doveva arrivare? Come rileva il matematico Giorgio Odifreddi “non si può sostenere che tutto ciò può accadere accade, o che tutto ciò che è accaduto doveva accadere, a meno di non voler professare un determinismo o un fatalismo assoluti.”
Questa pandemia è stata scientificamente divisa in fasi. La fase 1 mi sembra sia stata gestita con prudenza in Cina e Corea e in Italia, un po’ improvvisata forse, ma dettata dagli immunologi, poi seguita con riluttanza da altri paesi europei, che hanno adottato comportamenti pragmatici o menefreghisti corroborati dalla constatazione che in fondo questo virus sembrava accanirsi soltanto sulla parte più debole e meno produttiva della popolazione. A parte i casi in cui i malati dismessi dai reparti ospedalieri sono stati dirottati nelle case di riposo e negli ospizi.
Abbiamo riscoperto che a questo mondo non c’è solo la discriminazione su base razziale, perché non esistono le razze, ma esistono i generi, le età, di redditi, ecc.
L’ovvia invocazione è ritorno alla normalità. Certo, ma quale “normalità”? Forse una domanda inutile, se la normalità si riduce in fondo a un processo di assuefazione, quella che lo psicologo Gregory Bateson riteneva il più spontaneo adattamento dell’uomo al mantenimento di un equilibrio, instabile e malato, come un doppio legame, utile però a ridurre lo stress psichico.
La fase 2, preannunciata e caldeggiata da stampa e mezzi di comunicazione, è guidata da esigenze economiche. Non è più una questione di salute, ma di denaro. Se il povero non lavora non mangia e non dà da mangiare al ricco. Prima il virus dava ansia, ora dà noia. Prima era un parassita micidiale, ora è un ospite fastidioso. L’importante è non voler vedere né riflettere. Ma non siamo tutti così.
Vorrei concludere con le parole del linguista Noam Chomsky che (umilmente) cita lo storico Vijay Prashad: “Ma se vogliamo evitare future catastrofi, dobbiamo allargare lo sguardo. (…) Chi vuole ricostruire una società vivibile a partire dal disastro che questa crisi lascerà dietro di sé, farebbe bene ad ascoltare l’appello di Vijay Prashad: “Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”.
Classe. IV F Scienze Umane IIS Gandhi Narni Scalo