La Libia ieri e oggi

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Giovedì 14 aprile
Cenacolo San Marco, ore 17.30
Libia ieri e oggi incontro con lo storico Pompeo De Angelis

L’Italia, a fine Ottocento, si trovò incarcerata nel Mediterraneo. Gli italiani seguitavano a chiamare quella distesa di acque da Gibilterra alla foce del Danubio il Mare Nostrum, anche se si rendevano conto che tutti i paesi della costa africana, fino a Orano, appartenevano all’impero ottomano. Il Mediterraneo era in gran parte turco. Ma le nazioni europee della seconda rivoluzione industriale sconvolsero lo status quo della Sublime Porta. Gli inglesi, piazzati a Gibilterra, a Malta e a Cipro e i francesi intromessi nella zona maghrebina divennero loro i veri padroni del Mare Interno. Le navi italiane non entravano e non uscivano dagli stretti senza chiedere loro, per favore, la chiave di Gibilterra e di Suez.  La chiave dei  Dardanelli, pur in mano ai turchi, era adoperata dagli inglesi e dai francesi, a piacimento. Tra il 1894 e il 1895 la Francia fece del Nord Africa una direttrice ovest – est del suo dominio, mentre l’Inghilterra, partendo dall’Egitto, sulla linea nord – sud,  verso il Capo di Buona Speranza, occupava le vie dei mari indiani. Sul versante orientale,   le rupi cianee dell’Ellesponto impedivano ai russi il passaggio al mare caldo.  Il  sultanato di Istanbul occupava ancora la Cirenaica, la Tripolitania, le isole del mare Egeo e una parte dei paesi balcanici: brandelli dell’impero di Solimano il Magnifico e del suo ammiraglio Aruj Barbarossa. Il fiume Oceano, che circonda i  tre continenti, non riusciva ad assumere il ruolo di mare assoluto perché il mare più piccolo era considerato la culla e la scuola di vita degli europei e degli ottomani. Alla fine del XIX secolo, la Spagna perdeva i territori coloniali dell’Atlantico e del Pacifico e restringeva il proprio interesse espansionistico al Marocco. Gli italiani del 1860-70 ribadirono il concetto di Mare Nostrum, ceduto dalle Signorie marinare a spagnoli e a corsari turchi, circa tre secoli prima. Eppure il mare non cambiava  il suo aspetto di mare, ma lo traversavano le navi corazzate d’acciaio, cioè gli squali dei pochi paesi che avevano le acciaierie, tra cui l’Italia.

Quando la Francia occupò la Tunisia nel  1881 e l’Inghilterra invase l’Egitto nel 1882, l’Italia si raccomandò all’Inghilterra per  evitare altre sorprese francesi sulla Tripolitania e la Cirenaica. Il concerto europeo suonò la grancassa per farsi sentire dalla Francia.  Nel 1885, due stipulazioni fra Italia, Austria-Ungheria, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Romania ebbero come obiettivo di interrompere lo slancio dei gallici nel magreb.   Se la Francia avesse insistito per  colonizzare le terre ad est della Tunisia, la Germania con il Trattato del 1891, si impegnava ad aiutare l’Italia a piazzarsi sulla costa libica, a scapito dell’impero ottomano che avrebbe perso quella provincia, ma i gallici sarebbero stati insabbiati sul confine tunisino. L’Italia era stata cacciata dal Corno d’Africa europeo subendo la sconfitta ad Adua, nel 1896, da parte dell’esercito abissino del negus Menelik. La pubblica opinione dell’Italietta chiese ai governi di andar  “via dall’Africa” e i governi si dedicarono a una “politica di raccoglimento” apparentemente rinunciando al colonialismo armato. La borghesia italiana organizzava, invece, una penetrazione finanziaria ed economica, con la Società Coloniale Italiana a Tripoli e a Bengasi e con il Banco di Roma a Tripoli, che aprì agenzie commerciali a Homa, Sliten, Tabia, Misurata e Bengasi. Il Vali della Tripolitania boicottava le iniziative citate e l’ambasciatore italiano a Istanbul       chiese al  Sultano di “porre finalmente termine ad una situazione intollerabile”, altrimenti le navi da guerra tricolori avrebbero  preso la rotta  del Mar di Marmora. Le relazioni italo-ottomane peggioravano di anno in anno  e si formò una corrente di “nazionalisti” in Italia, che sostenevano la politica espansionistica, ormai dimentichi della disfatta di Adua.  Alfredo Oriani affermava che le colonie erano una necessità del paese reale e significavano un alto destino per il paese legale. Enrico Corradini lamentava che l’Italia  cacciasse i suoi figli attraverso l’emigrazione invece di dar loro un posto al sole. Persino il marxista Antonio Labriola proponeva di andare a Tripoli  per dare uno sfogo al proletariato della Penisola e per assorbire le eccedenze demografiche. I giornali propagandavano l’idea che la conquista dei vilayet turchi avrebbe risolto il problema dell’emigrazione e tolte le ombre che oscuravano  la belle epoque.

Nell’estate del 1911, il re Vittorio Emanuele III concordò con il presidente del Consiglio Antonio Giolitti il 27 settembre  l’invio dell’ultimatum alla Sublime Porta e venne attaccata la protezione turca sulla Tripolitania e la Cirenaica. La spedizione militare sulla costa africana si effettuò incoraggiata dall’entusiasmo crescente di tanti che videro realizzarsi i fasti imperiali della Roma antica. Nei cabaret, Gea della Garisenda vestita unicamente del tricolore cantava “Tripoli bel suol d’amore”. Giovanni Pascoli sentenziò: “La grande proletaria si è mossa”. La Chiesa cattolica fu contagiata dal tripudio della guerra e sventolava il tricolore mentre il non expedit papale era pur sempre in vigore.

 Libia 1911

Ma gli italiani non sapevano cosa era la Libia, se non una espressione geografica latina. Non distinguevano fra la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan (che costituivano tre contigue provincie dell’Impero ottomano) tanto l’operazione militare era studiata per stabilire delle basi costiere e chiudere gli scali ai concorrenti. Non volevano spingersi all’interno fino alle righe di confine che dividono il Sahara del Fezzan, dall’Algeria, dal Niger, dal Ciad. Non volevano stabilire i presidi militari ai confini desertici con il  Sudan e  con l’Egitto. Neppure gli esploratori della Società Geografica Italiana si addentravano nella “gabbia di sabbia[1]  a dorso di cammello.  Bastava buttar fuori i turchi dalle spiagge e gli italiani avrebbero potuto pavoneggiarsi, nell’Africa Settentrionale, insieme alla Francia e all’Inghilterra, in divisa coloniale.   Venticinquemila  marines presero, tra 9 e il 20 ottobre i porti di Tripoli, di Tobruk, di Derna, di Bengasi, di Homs.[2]   Raggiunsero rapidamente l’obiettivo, perché i turchi  cedettero subito alle cannonate sui loro fortini portuali e il 5 novembre l’Italia proclamò unilateralmente la sua sovranità sulla grande Libia,  sebbene si fosse attestata soltanto sulle coste. In quei tempi, si cannoneggiava dal mare senza mettere lo stivale per terra, come oggi gli eserciti delle grandi potenze bombardano dall’aria la Siria. Chi, allora, aveva le corazzate conquistava la battigia del Mediterraneo. “La patria è sulla nave” diceva Gabriele D’Annunzio.

Ieri rassomiglia ad oggi, forse  perché  la Libia è sempre la stessa, cioè ingannevole, anche nel nome. Gli italiani pensavano che, messi in fuga i turchi, gli indigeni li avrebbero accolti a braccia aperte, felici di liberarsi dell’oppressione e del fiscalismo di Istanbul, con l’idea di farsi occidentali. In questo spirito, il Presidente della Repubblica francese Sarkosy assicurò, nel 2011, che bombardando le difese di Gheddafi, sarebbe spuntata la primavera araba della democrazia. Nel 1911, l’illusione cadde ben presto: i capi delle tribù arabo-berbere della Tripolitania si unirono ad alcuni   contingenti della mezza luna e tennero in scacco le truppe del generale Caneva nelle oasi intorno a Tripoli. La primavera araba non fu possibile cento anni prima, né cento anni dopo. Bisogna massacrarli quei barbari beduini, allora si è pensato.  Nel 1912, entrò in azione anche l’aviazione e bombardò l’oasi di Gargaresch e di Tagiura. I fotografi impazzirono a fotografare aerei a doppia ala e gli hangar smontabili e trasportabili delle Officine Bosco di Terni.  Il tenente pilota Gavanotti lanciava, sulla testa dei nemici, le bombe a mano sporgendosi dalla carlinga. I giornali illustrati mostravano le scene di combattimento fra palmeti da miraggio  e i disegnatori entusiasmarono il pubblico ritraendo in belle tavole a colori gli ascari, cioè gli eritrei in divisa kaki e un fez a tubo alto con un pennacchio, che riuscivano a combattere nel deserto, come oggi i curdi fra le macerie di Kobane.  Nel 2011, le truppe del dittatore libico sono state  colpite dai missili da crociera angloamericani, detti “Tomahawk” e la popolazione indigena  invece di gettarsi fra le braccia dei liberatori, è tornata alle sue divisioni storiche e proclama tre governi, uno riconosciuto internazionalmente in Tripolitana, un altro non riconosciuto in Cirenaica, mentre il Fezzan annuncia la sua autonomia da Tripoli. La Libia è esistita solo nelle carte degli “Itineraria” di Cesare Augusto nell’anno zero, nelle scartoffie del governatorato di Pietro Badoglio nel 1929 e nell’utopia   di Benito Mussolini, spada dell’Islam nel 1934. Gheddafi teneva riunito il paese con una associazione di capi tribù e il suo potere era effimero in quanto personale.  Dopo Gheddafi, nel 2016, l’ISIS (Stato Islamico dell’Iran e della Siria) intende approfittare della situazione frammentata della cosiddetta Libia per  spostarsi dall’Asia Minore alla Cirenaica e al confine con la Tunisia, dove  potrebbe costituire un califfato. Anche questa iniziativa ricorda il passato. Torniamo al 1913. Quando l’Italia si trovò a governare la conquista, dovette fronteggiare un movimento musulmano fondamentalista, la Confraternita della Senussia, che proveniva dal Sudan anglo-egiziano e conquistò un importante seguito fra la popolazione rurale cirenaica. Stabilì un centro di potere nell’oasi di Giarabub, dove comincia il  gran mare di sabbia, punto d’incontro delle carovane del deserto, trecento chilometri a sud di Tobruk .  La tariqa sanussa non voleva né gli italiani, né gli ottomani in Nordafrica. I suoi capi predicavano uno scisma islamico per il ritorno agli originari costumi fatti di purezza coranica e semplicità di vita, come prescrive il Sahara. Contro gli italiani organizzarono la guerriglia nel Gebel, per cui l’Italia rimase sulla costa e i senossi dominarono nell’interno, con capitale   Kufra,  sostenuti dalla lealtà delle tribù berbere. Nel 1931, per sconfiggere la resistenza locale, il generale Rodolfo Graziani chiuse la frontiera con l’Egitto, via di fuga e di rifornimento dei partigiani cirenaici,  con una barriera di reticolati di filo spinato lunga 270 km, da Giarabub al porto di Bardia, sorvegliata da aeroplani. Ai nostri giorni, lo sbarramento di confini col filo spinato si ripete e la sorveglianza dei guerriglieri si effettua con i droni. Non è mia intenzione sostenere che la storia si ripete, ma di ripetere che le storie contengono errori sempre eguali, perché provengono dall’illusione di una nazione che vuol espandersi sugli altri domini fissati ancestralmente.  Potrebbe esistere anche un’altra politica, quella  del “raccoglimento”, praticata dall’Italia dopo la batosta di Adua.  Cambiano i tempi, ma non cambiano i modi.  C’è ancora  chi ripropone prendere Roma e chi vuol riprendere Damasco o Gerusalemme in nome della guerra. I più stupidi credono alla guerra  in nome di Dio. Nel Mediterraneo si combatterà. Mi preme ancora dire che durante la Seconda Guerra Mondiale, l’Inghilterra trattò con i senussi di Cirenaica e promise loro che avrebbero governato la Libia; la Libia, che è una espressione geografica latina.